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Conosciuto anche con il soprannome di “Il Signore degli Anelli”, Jury Chechi è stato uno dei più grandi ginnasti che la nazionale italiana abbia mai avuto. Negli anni Novanta ha letteralmente dominato la specialità degli anelli regalando all’Italia oltre che numerosi titoli mondiali ed europei anche una medaglia d’oro ai giochi di Atlanta 1996.
Negli anni duemila, dopo un gravissimo infortunio al braccio che avrebbe potuto mettere la parola fine alla sua carriera sportiva, Jury Chechi riuscì a ritrovare la forza di ritornare ad allenarsi in vista dei giochi del 2004. Alle Olimpiadi di Atene si qualificò per la sua ultima finale di specialità agli anelli conquistando un bronzo che sa d’oro.
1. Come è nata questa passione per la ginnastica artistica?
Devo ammettere che i miei genitori sono stati veramente molto bravi a farmi provare più sport così che potessi scegliere quello che mi appassionasse di più. La ginnastica artistica è stata la fine di questa lunga ed estenuante ricerca. Quasi casualmente, solo perché mia sorella andava in palestra a praticare questa disciplina, decisi di volerla provare anche io. Non so come spiegarlo razionalmente, ma già dal primo allenamento sentii qualcosa scattare in me e compresi finalmente che era ciò che volevo fare nella vita.
2. Come mai tra i sei attrezzi maschili hai scelto proprio gli anelli?
Premetto che mi piacciono tutti gli attrezzi della ginnastica artistica e mi allenavo assiduamente su tutti e sei, con gli anelli però sentivo un certo legame. Tralasciando il fatto che mi chiamano Jury Chechi “Il Signore degli Anelli”, ammetto che all’inizio questa predilezione sia stata più una scelta obbligata dal mio corpo. Il grave infortunio al tendine d’Achille aveva compromesso la mia partenza per le Olimpiadi di Barcellona nel 1992 dove ero uno tra i ginnasti favoriti alla conquista della medaglia d’oro al corpo libero. Dopo questo spiacevole evento le mie spinte e le mie performance non erano più quelle di una volta così decisi di specializzarmi negli anelli.
3. Cosa provavi quando eri sugli attrezzi?
Questo è uno sport molto particolare. È bello, ma molto complesso dal punto di vista tecnico. Se vuoi “performare” bene devi essere sempre al cento per cento. Quando sei in forze è estremamente piacevole ed appagante compiere esercizi che sembrano anche molto complessi. È un’emozione indescrivibile quando raggiungi finalmente traguardi inimmaginabili e ti rendi conto che il tuo corpo e la tua mente riescono veramente a fare cose straordinarie. Noi lavoriamo costantemente per raggiungere la perfezione nonostante siamo consapevoli che sia quasi impossibile. Ogni giorno in palestra cerchiamo di avvicinarci sempre di più a questa sensazione ed è eccezionale. L’unico aspetto negativo è che ti devi allenare anche quando non sei al massimo e lì inizi a sentire la fatica e i dolori.
4. Quale movimento ti ha dato particolare soddisfazione quando l’hai realizzato?
Più di uno. Ho realizzato un sacco di movimenti nella mia vita, ma ovviamente per scelte tecniche non ho mai portato in gara. Agli anelli ricordo ancora il primo giorno in cui capii che potevo fare la croce in maniera quasi perfetta: con le spalle allineate all’attrezzo senza incorrere in numerose penalità. Avevo quattordici anni e ti posso giurare che è stata una sensazione meravigliosa. Alla sbarra, invece, rammento ancora la prima volta che ho realizzato il mio primo Kovacs, un doppio salto mortale raccolto sopra l’attrezzo. Quando le mie mani ripresero lo staggio faticavo ancora a credere di esserci riuscito.
5. Dopo i due infortuni, dove hai trovato la forza di rialzarti?
A nove anni la maestra propose un tema su che cosa volessimo fare da grandi. Io scrissi solamente che volevo vincere un’Olimpiade. Non aggiunsi altro, avevo le idee chiare fin da piccolo. Ad Atlanta nel ’96 coronai questo sogno dopo una preparazione fisica davvero maniacale ed attenta. Ero estremamente motivato e credo che trovai la forza proprio in quelle semplici parole. Nel 2000 ebbi un altro infortunio, questa volta al braccio con la rottura del tendine del bicipite. Non partecipai a Sydney. Ammetto che in quel momento trovare l’energia e la motivazione per andare avanti sia stato particolarmente duro, ma volevo concludere la mia carriera con un’ultima gara. Sinceramente ancora oggi mi chiedo dove avessi trovato tutta quella grinta. Ad Atene il mio braccio non era ancora completamente riabilitato e la mia preparazione ne ha risentito. Quel bronzo ancora oggi per me vale un oro.
6. Quanto è stato importante il ruolo del tuo allenatore nella tua crescita professionale?
È stato fondamentale, una parte essenziale di tutto quello che sono riuscito a realizzare. Io ho voluto allenarmi con quell’allenatore e con quel gruppo. Ho riposto completa fiducia in lui, nonostante fosse uno dei più severi e difficili con i quali collaborare. Sapevo che se avessi avuto la forza di seguire le sue indicazioni avrei coronato i miei sogni.
7. Chiuso il capitolo dell’atleta professionista cosa stai facendo?
Purtroppo non faccio più sport e questo mi disturba molto. Da quando ho smesso faccio l’imprenditore, ho le mie attività e cerco di fare cose che mi appassionano, perché senza la passione non si va da nessuna parte. Al momento mi dedico molto alla famiglia.
8. Hai qualche progetto per il futuro?
Quello ovviamente sì, anche nel mondo della ginnastica. Quando le cose saranno un pochino più mature, mi piacerebbe provare a dare un contributo più dirigenziale che tecnico a quel mondo che mi ha accolto sin da bambino.