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Dopo la grande tragedia delle Grandes Jorassesdel 1993, sentivo il bisogno di esorcizzare la triste esperienza.
Posto che come alcuni sostengono sia molto consigliabile, ad esempio dopo una caduta in moto, tornare ad inforcarla quanto prima, dopo 26 giorni ero nuovamente sul Monte Bianco con l’intento preciso di superare le inevitabili paure che mi avevano pervaso nei giorni successivi la tragedia. Avevo individuato nella parete nord-est della Pyramide du Tacul la via di roccia giusta per l’occasione. Dovevo riconciliarmi col massiccio del Bianco, dovevo far pace con le mie paure e trovare il modo di metabolizzare il disastro a cui avevo assistito.
Il giorno della partenza
Come sempre un paio di amici mi accompagnarono e la partenza per il rifugio Torino fu fissata per il 28 Agosto. Le previsioni sul Bianco, grazie alla meteorologia già in quegli anni piuttosto precisa, davano ‘bello stabile’ e la notte la passammo al rifugio Torino, posto a circa 3400 metri facilmente raggiungibile con la funivia.
L’idea era di salire una via tranquilla di 250 metri o poco meno e rientrare in serata in Liguria. Per questo motivo partimmo di buon mattino, indossati i ramponi e legati in cordata, veloci giù per il Col des Flambeaux, il famigerato punto che, belli freschi al mattino e in discesa, è un attimo ed è pure piacevole, al contrario al rientro da una salita, solitamente un po’ stanchi, diventa “eterno”.
Poi in piano ed in leggera discesa fino ai grandi crepacci del glacier du Geant che si superano di solito senza grosse difficoltà purché non abbia nevicato durante la notte e la coltre nevosa non abbia cancellato anche le tracce del più piccolo volatile che ci aveva zampettato sopra. Usciti dalla zona dei grandi crepacci, a breve, doppiammo il canalone nord-est, molto contorto e irrequieto infaustamente noto per le frequenti scariche di ghiaccio, pietre e altro che scendono dal Mont Blanc du Tacul. Girato lo spigolo est della Pyramide, ci mettemmo a cercare la nostra via, una via dei fratelli Remy aperta nel ‘84, dal nome molto Parigino di Ronfleur Paradoxal.

L’avventura in salita
Ci preparammo, sistemammo i ramponi negli zaini, a parte i miei che tenni ancora per poco tempo, ma tenemmo la piccozza con la quale i compagni mi fecero sicura in quanto l’attacco si presentava difficilmente raggiungibile per via della larga crepaccia terminale. Partii, in verità un po’ preoccupato e mi calai guardingo nel crepaccio per risalire su una esile cornice di ghiaccio che nella parte poco più larga aderiva al granito; non vidi chiodi di assicurazione piantati dai primi salitori e decisi di piantarne uno in un diedro che saliva per circa 15 metri sopra di me, ed assicurarmici.
In quella scomodissima posizione mi tolsi scarponi e ramponi e indossai le scarpette da arrampicata, presi coraggio ed iniziai ad elevarmi nel diedro, dopo 6 o 7 metri non vedendo traccia di chiodi misi un nut ad incastro e proseguii, altri 10/15 metri senza chiodi ma su terreno un pò più facile e in breve raggiunsi una piccola piazzola dove attrezzai una sosta. Mi autoassicurai e chiesi ai 2 compagni di salire. Stefano arrivò in preda a forti tremori che apparvero subito come una crisi ipoglicemica consigliandoci una breve sosta a base di acqua e zucchero.
I fratelli Remy, sicuramente valentissimi alpinisti, non sono tutt’ora noti per la loro propensione alla chiodatura o più semplicemente per l’apprezzatissima (dai ripetitori) abitudine di lasciare i chiodi sulle loro vie di roccia. Evidentemente sono così affezionati ai loro ferri da non desiderare affatto lasciarli piantati in parete. Morale: ripartii per effettuare il mio secondo tiro di corda sapendo che mi aspettavano 35 metri dichiarati di 6a, ma non intravvedevo alcun chiodo. (Per scoprire i gradi di difficoltà leggi il nostro articolo).
Perplesso, mi dissi, “Vabbè, vorrà dire che userò i ‘friend’ così faccio un pò di allenamento”. Presi a salire una fessura ad andamento vagamente sinusoidale, dapprima non difficile, poi via via sempre più tecnica. Erano già 10 metri che salivo e sentivo la necessità di frapporre qualcosa di sicuro tra me e i miei compagni anche perché, se fossi caduto, mi sarei fatto un volo di 20 metri con conseguenze facilmente immaginabili.

Chiodi, neanche l’ombra, misi un friend, un aggeggio che tramite un cavetto tirante aziona 4 camme che, stringendosi, entrano facilmente nelle fessure per poi venir rilasciate, sempre tramite il cavetto, in modo da poter offrire un discreto ancoraggio il quale, azionato verso il basso in caso di caduta, la blocca efficacemente. I friend funzionano bene nelle fessure le cui due facce sono parallele, molto, molto meno bene nelle fessure svasate le cui facce sono divaricate e il punto di unione delle due facce è costituito da un accenno di fessura cieca.
A questo punto tornai a salire dopo aver fatto passare la corda dentro un moschettone ancorato al friend, salii 5,6,7 metri difficili, e dal basso mi giunse una voce preoccupata che mi chiese: “come va Renni?” per fare quei 17 metri avevo impiegato almeno 20 minuti e ne avevo per altrettanti metri. La risposta fu una di quelle che tra noi, in quegli anni spensierati, imperversava: “scabrosetto, direi”. Risata generale che stemperò la tensione.
Riuscii a posizionare un altro friend ma questa volta messo peggio, la fessura svasata, come dicevo, non permetteva alle camme di aderire in modo uniforme e omogeneo alla parete lasciando la camma esterna più allargata rispetto all’interna. In questi casi la tenuta è solo “psicologica”. Proseguii, chiodi neanche mezzo, parete liscia solcata dall’unica possibilità visibile di salita, l’infida fessura che stava diventando sempre più larga, quindi sempre meno proteggibile e anche più dura; continuai a salire incastrando i pugni, le scarpette, a volte la spalla, gli avambracci, una maledettissima fessura faticosa e schiodata, ancorché pericolosa.
A questo punto analizzai le possibilità di ritirata. Non ne intravidi perché arrampicare al contrario, in discesa ed in quelle condizioni, risultava improponibile, fermarsi neanche a parlarne in quanto le forze mi avrebbero abbandonato a breve, e poi per quale motivo? Unica salvezza da questa imbarazzante e pericolosa situazione, non avendo chiodi miei da piantare, (ma piantarli dove? giacché la fessura cieca non poteva riceverne) fu continuare verso l’alto sperando nella mia buona stella.

Il rischio di un mese prima alle Grandes Jorasses si stava riproponendo?
Arrampicai con fatica per altri 4 metri e misi, ormai un po’ provato, l’ennesimo friend che non avrebbe sicuramente tenuto in caso di caduta, proseguii, altri 5 metri un altro friend che gettai, a questo punto e dopo un’ora di salita, come il muratore getta il cemento su un muro a secco, si posizionò “sghembo e storto” come i precedenti guardandomi con un vago ghigno sardonico, ormai mi tremavano gambe, braccia, mani, mi imposi lucidità e mantenni la calma sapendo bene che il panico mi avrebbe ucciso.
A questo punto se fossi volato via avrei fatto un volo di oltre 50 metri che sarebbe stato fatale, i friend non avrebbero tenuto, la corda si sarebbe facilmente spezzata e il mio corpo sarebbe finito pure nella crepaccia terminale, una gran brutta storia. Non so come riuscii a salire gli ultimi 7/8 metri ma so che arrivai alla sosta col cuore che voleva uscirmi dal petto per respirare a sua volta l’aria pura dei 3600 metri. Feci salire i compagni e decidemmo, a questo punto e di comune accordo, di scendere a farci una bella birra fresca al rifugio. Dopo aver affrontato il simpaticissimo Col des Flambeaux.
Quella volta, come 26 giorni prima, ebbi fortuna ma mentre sulle Jorasses fu l’imponderabile, l’imprevedibile, a dominare la scena, qui scelsi io di avventurarmi su un terreno che si rivelò insidioso. Quasi sicuramente sbagliammo via, non lo so e non lo saprò mai, il fatto stesso che non incontrammo, nei 60/70 metri che scalammo, nemmeno un chiodo, farebbe pensare a quello.
Sicuramente mi aiutò anche il mio equilibrio psicofisico di quegli anni e l’esperienza acquisita in tante salite; ero molto allenato, determinato, attivo in montagna, soprattutto sul granito del Bianco ed ero giovane. Non c’è una morale da trarre, fu un’esperienza come altre in montagna, per certi versi un po’ più rischiosa, ma pur sempre straordinaria. Tornando a casa mi sentii in pace con la montagna che ho sempre amato e lo scopo che mi ero prefissato era stato raggiunto, sapevo che non avrei mai dimenticato la tragedia, ma ora potevo considerarmi libero da quell’incubo. Fu come una rinascita al punto che ancor oggi a 62 anni, non solo continuo a scalare e a chiodare vie di roccia, ma lo faccio con lo stesso entusiasmo dei primi giorni.