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Torno a parlarvi di montagna, quella vera, tosta, e di esperienze vissute in prima persona, a volte belle, eccitanti e appaganti, a volte tristi come questa che vado a raccontarvi.
Era da un po’ di tempo che, con uno dei compagni di scalate dell’epoca, pensavamo di salire le Grandes Jorasses dal versante sud-ovest per la via classica del 1865 tracciata da Edward Whymper insieme ad altri due compagni. Due giorni prima si unì a noi un conoscente del mio compagno di cordata e decidemmo di partire tutti e tre per la Val Ferret; era il 1° Agosto 1993 e il meteo ci tranquillizzava con ‘bello stabile almeno per 3-4 giorni’. Era da due anni che possedevo, per averlo acquistato rigorosamente di seconda mano, uno dei primi telefoni cellulari dell’epoca, si trattava di un Motorola 6800X installato in auto con la possibilità di inserirlo in un kit portatile il tutto, batteria compresa, per il dolce peso di quasi 3 chili e mezzo…. in quel momento non sapevo che avrei dovuto usarlo di li a poco.
Arrivammo al rifugio Gabriele Boccalatte nel tardo pomeriggio di Domenica 1 Agosto e, dopo neanche mezz’ora, vidi arrivare il grande Alpinista e free climber francese Patrick Berhault che io avevo già incontrato in almeno due occasioni a Finale Ligure, dove amava arrampicare, e avevo avuto il piacere di assistere ad un evento di arrampicata notturna, che lo vedeva protagonista, a Finale circa 10 anni prima.
Lo salutai, mi riconobbe, e mi disse che aveva appena ultimato la salita della classica via Cassin del 1938 alla parete nord della cima Walker e stava scendendo per il versante sud, mi confidò anche una leggera preoccupazione per lo stato in cui si trovava il fronte del ghiacciaio pensile posizionato a 300/400 metri sotto la vetta della Walker all’altitudine di circa 3900-4000 metri.
Patrick sosteneva che l’inclinazione della parte anteriore fosse leggermente accentuata e mi disse di fare attenzione anche se i casi di distacco sono abbastanza frequenti ma solitamente di dimensioni molto molto contenute e comunque quasi mai di notte, è rarissimo che si stacchi un’intera porzione di ghiacciaio, al massimo può scaricare pietre e qualche piccola slavina durante le ore del giorno, quando fa più caldo.

La preparazione finale
Di notte…. appunto, perché la salita alla cima delle Grandes Jorasses da sud-ovest si fa di notte partendo nelle prime ore della mattina. La sera a cena facemmo due chiacchiere con due ragazzi e una ragazza di Verona e, tra i vari racconti di salite compiute sia da parte nostra che da parte loro e la promessa di rivederci ad arrampicare a Finale Ligure, dissi loro della conversazione che avevo avuto con Patrick nel pomeriggio, ne parlai anche con altri cercando di condividere quanto avevo sentito raccontare, ma convenimmo che non c’era da preoccuparsi più di tanto. Si, certo, ma io non ero tranquillo e il mio sesto senso mi consigliava attenzione.
Tutti in branda alle 20:00 perché all’1:00 al più tardi bisogna scattare, lavarsi, vestirsi fare colazione e prepararsi a partire; si, ma io alle 22:00 ero già col naso fuori dal rifugio a sentire la montagna, a odorarla, a percepirne il freddo, che non era particolarmente intenso quella notte…. e poi ancora alle 23:30, come prima, fuori al freddo, a cercare di interpretare i segnali e la silenziosa voce della grande montagna.
E fu in quel preciso istante che decisi di partire 15 minuti prima dell’ora canonica prevista, solo 15 minuti, perché da sempre la montagna mi ha insegnato che è meglio anticipare, è meglio non attardarsi, è sempre meglio non perdere tempo. Ci preparammo, silenziosamente, io tenni per me le motivazioni che mi spinsero a svegliare anzitempo i miei compagni…. come avrei potuto raccontare loro che è come se avessi sentito dentro di me una voce che mi allertava? Mi avrebbero creduto? Forse i miei vecchi, che mi hanno lasciato orfano ancora troppo giovane, mi vollero mandare dei segnali attraverso il mio inconscio? Non lo so, non sono mai riuscito a comprendere a pieno la mia ferma decisione di quei momenti così delicati.
La partenza
Accendemmo i frontalini e partimmo, dopo aver indossato i ramponi, intorno alle 2:00 circa legati tutti e tre a distanza di circa 9/10 metri l’uno dall’altro e dai 2800 metri del rifugio ci portammo in poco più di 2 ore in cima al canalone sottostante il grande seracco che non potevamo vedere, sia per il buio della notte in quel momento non rischiarato dalla luna, nascosta dietro una cortina di nuvole, sia perché più in alto rispetto a noi di circa 400/500 metri.
Eravamo a quota 3500 metri e sulla nostra sinistra a circa 5 minuti si vedevano le “Rocher de Reposoire” una cresta rocciosa che affiora dal ghiacciaio e che ci avrebbe portato a circa 3800 metri in una zona più sicura dalla quale con un traverso verso destra, che ci avrebbe consentito di elevarci sopra il seracco, saremmo saliti ai 4200 metri della punta Walker. 5 minuti, solo 5 minuti per arrivare al sicuro sulle “rocce del riposo” come le aveva battezzate Whymper quasi 130 anni prima.
La tragedia
Come dicevo 5 minuti dopo eravamo 20 metri sopra la base delle rocce, quanto bastava per uscire dall’area di pericolo e poterci togliere i ramponi, quando alle 4:20, nel silenzio immenso della montagna, uno schianto fortissimo seguito da un boato impressionante, ci costrinse a guardare in su e ciò che vidi è tuttora scolpito nella mia memoria in modo imperituro, indelebile; una enorme massa di circa 200.000 metri cubi di ghiaccio, come a dire un palazzo alto 14 piani con un fronte di circa 200 metri e uno spessore di 20, stava crollando su di noi, spezzandosi in migliaia di pezzi grandi come un frigorifero e anche di più, quasi come un auto.

Proprio in quel momento la luna fuoriusciva e illuminava di un chiarore anomalo la scena. Dietro di noi due francesi, che stavano salendo una via che portava direttamente sotto il seracco, furono letteralmente spazzati via come foglie in un tornado, i tre austriaci tra cui una guida alpina furono travolti immediatamente dopo, non ebbero scampo, la grande valanga di ghiaccio era talmente estesa da non lasciare alcuna via di fuga possibile…. ebbero forse un paio di secondi per capire cosa li stava aspettando. Il movimento della valanga dapprima veloce, via via stava rallentando, non so dire in quanto tempo ma azzarderei almeno 1 minuto, per poi fermarsi avendo seminato morte dietro sé.
Dopo i primi 2-3 minuti di sconcerto, presi il telefono dentro lo zaino e chiamai il rifugio Boccalatte il cui numero, per precauzione, avevo memorizzato la sera prima. Diedi l’allarme ad un custode incredulo che mi chiedeva se c’erano dei morti e dei feriti…. laconico risposi che almeno 5 morti li avevo contati personalmente ma che non sapevo dirgli altro. Poco dopo chiamavo il Soccorso Alpino di Aosta e ripetevo le stesse frasi.
L’epilogo
Impiegammo più di mezz’ora prima di decidere di scendere, si perché quando la montagna si prende delle vite, è impensabile proseguire la salita, per rispetto verso chi non c’è più, per etica alpinistica, per solidarietà perché ci potrebbero essere dei feriti da soccorrere; i soccorsi arrivarono alle 5:50 con un elicottero e alcuni membri del Soccorso Alpino, ma purtroppo di feriti non ce n’erano…. solo morti, ben 8, tra cui i tre ragazzi veronesi con i quali avevamo cenato, gomito a gomito, la sera prima e della cui scomparsa, dalla nostra posizione 200 metri più su, non potevamo accorgerci.
Rimanemmo 15 minuti vicino a quei poveri ragazzi, pregammo… forse, o almeno io lo feci, senza emettere un solo suono, in silenzio. Fummo chiamati in questura ad Aosta dove dovemmo testimoniare sull’accaduto e dovemmo fornire alcuni particolari sul fatto che due svizzeri, passando sulla valanga, decisero di salire comunque sordi alla mia richiesta che li invitava a desistere…. furono denunciati dai funzionari preposti per omissione di soccorso.

Considerazioni personali
Qualche mese dopo io e uno dei due compagni fummo intervistati per una puntata di una trasmissione condotta da Alessandro Cecchi Paone il cui tema verteva sull’importanza del telefono cellulare nelle varie occasioni della vita, comprese le emergenze e le disgrazie…… purtroppo quella volta il mio telefono non servì a salvare delle vite.
Questa tragedia mi segnò profondamente, avevo 33 anni e da una decina facevo salite di un certo livello e impegno, compresi in modo chiaro quanto la vita sia davvero appesa ad un filo, mi sforzai di capire il significato della frase: “non era la tua ora” e quindi incominciai a credere che tutti noi abbiamo un destino, chissà, forse anche già scritto.
Sta di fatto che ancora oggi mi chiedo: e se non avessi deciso di partire 15 minuti prima? Quei 15 minuti che mi portarono ad evitare la grande valanga per soli 5 minuti…. era destino, era scritto, che noi avremmo dovuto salvarci mentre i tre veronesi e gli altri 5 no? Cosa o chi regola tutto questo? Domande a cui non so dare risposte…. a ormai quasi 63 anni mi piace pensare che qualcuno,….e forse so anche chi, mi abbia guidato in quella scelta che mi permise di salvare le nostre tre vite.