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Nel nostro “andar per monti”, a tutti sarà capitato, in qualche tratto particolarmente ripido, di dover usare una mano per migliorare o mantenere l’equilibrio, poggiandola a terra o sulla roccia. Nulla di preoccupante, fintanto che si tratta di esigenze sporadiche, più per ridurre la fatica che per reali esigenze tecniche.
Tuttavia, in alcuni tratti di percorso l’esigenza di usare le mani per mantenere l’equilibrio, e addirittura per progredire, potrebbe diventare una necessità: ecco che ci troviamo ad affrontare, quasi senza rendercene conto, le cosiddette “roccette”, una sorta di anello di congiunzione tra escursionismo e alpinismo.

Lunghezza ed esposizione fanno la differenza
Tecnicamente, le “roccette” possono essere definite come un terreno montano, tipicamente roccioso, la cui progressione richiede, necessariamente, anche l’uso delle mani (un uso quindi non limitato a mantenere l’equilibrio, ma necessario a procedere).
Nell’affrontare un tratto di “roccette”, due sono i fattori che, sostanzialmente, dobbiamo considerare: la lunghezza e l’esposizione, anche in combinazione tra loro. Con l’ovvia premessa, comunque, che è vietato soffrire di vertigini.

La lunghezza è sicuramente un elemento della massima importanza: pochi metri di “roccette” – indicativamente non più di tre – quattro metri – possono essere affrontati anche con poca esperienza, con la necessaria prudenza e calma. Soprattutto perché le difficoltà sono ben visibili, ed è ben chiaro dove finiscono. Viceversa, un percorso roccioso nettamente più lungo richiede molta più concentrazione ed esperienza, anche perché non sempre si può vedere l’intero tratto “difficile”.
Il secondo elemento fondamentale è l’esposizione: a parità di difficoltà tecniche, un tratto roccioso in un angusto canale appare sicuramente più facile di un’area cresta, o di uno scosceso versante montano, con centinaia di metri di vuoto sotto i piedi.
Specie alle prime esperienze, privilegiare quindi percorsi su “roccette” brevi e non esposti, facendo attenzione anche ai “segnali” che ci invia il nostro corpo e la nostra mente: un insolito aumento del battito cardiaco, le gambe che iniziano a tremare, l’ansia che aumenta…. Tutti messaggi da non sottovalutare: una sorta di campanello d’allarme che ci invita a fermarci e a tornare indietro. Ascoltiamolo, tanto le montagne non scappano. Potremo riprovarci in futuro, più allenati e con più esperienza.

Alcuni suggerimenti tecnici
Senza entrare in troppi dettagli, ricordiamo la regola principale di muovere un solo arto alla volta, in modo da avere sempre tre punti di appoggio sulla roccia, ben saldi e fissi. Cercare anche di mantenere il corpo distante dalla parete, per migliorare l’aderenza. Ogni nuovo appiglio per le mani e appoggio per i piedi deve essere verificato nella sua solidità prima di essere utilizzato e caricato col peso del corpo, sia per evitare pericolosi sbilanciamenti, sia per non causare la caduta di sassi verso persone che potrebbero trovarsi sotto di noi.
La progressione deve essere lenta, eseguita con la massima calma, e lo sguardo deve sempre precedere i movimenti degli arti, studiando il terreno per sapere già esattamente “dove mettere le mani e poggiare i piedi”.
La discesa
Inutile dire che scendere un tratto roccioso è più difficile che salirlo, non fosse altro che per la maggiore esposizione. Per questa ovvia ragione, nel corso della salita non dobbiamo mai raggiungere i nostri limiti tecnici, sia fisici sia psicologici, proprio per mantenere un adeguato margine di sicurezza per la discesa. A meno, ovviamente, che il percorso non preveda una discesa lungo un altro itinerario più facile. In questo caso, nel corso della salita, si potrebbe anche “osare” qualcosa in più, sempre, inutile dirlo, con criterio e prudenza.